AMA_DIARIO DI SCUOLA – – La dimensione del corpo
Giorgia Salicandro
13 e 14 novembre, con Mario Perrotta
—
Prima di subire la conformazione di una lingua, prima di avere in consegna un’identità
incartata in un documento d’anagrafe, siamo nati con un corpo. Prima della voce e della
parola, prima dei nostri nomi e cognomi, viene il nostro corpo. Ciò che accade dopo, e
intorno, e oltre, è un’ontologia fuori misura per questo palco. Ciò che, sullo scricchiolio di
queste assi, dice senza preamboli o postille “io sono”, è il peso e il palpito del nostro
corpo.
Ci stranisce che a sostenerlo sia Mario Perrotta, che ha fatto della narrazione la cifra
stessa del proprio lavoro. Più tardi capiremo, quando la voce – e i discorsi che vi si posano
– verranno fuori naturalmente come una boccata d’aria o un gemito liberato.
Per ora stiamo in circolo, niente nomi o domande. Veniamo guidati a scomporci, lasciar
scorrere le energie, liquefarci. La testa, il collo, la colonna vertebrale, sino al coccige, sino
alle dita dei piedi.
Esistere ha un segno qui, ed è il nostro “stare”. Appena potrà riprendere il suo quaderno,
Paolo Stanca appunterà la lezione: «L’attore “sta”. Lo “stare” è dinamico, esprime già
un’emozione, un’azione». Così, muoversi qui è l’unico modo plausibile di “innescarsi”
come macchine attoriali. “Parlare” è “agire sul corpo di un altro” – agire “il” corpo di un
altro: altrimenti non è affatto.
Mario Perrotta riadatta i piedi, fa oscillare le teste, esige tensione o riposo. Non parla a noi,
ma ai muscoli e alle viscere in cui quel “noi” si sedimenta e trova espressione.
«Non vola una mosca sul palcoscenico popolato di passione – ripenserà più tardi Gabriella
Margiotta – tutti beviamo a larghi sorsi ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo severo, di una
severità che è solo disciplina e profonda passione per la ricerca teatrale». Ma è una
ricerca eccentrica, perché ci comanda di smettere di cercare. «L’attore è come un
bambino, non usa il “cervello”, cioè la sua parte razionale, ma la sua parte “emozionale”, e
come tale è vero, spontaneo, istintivo, innocente, leale e irrazionale» appunta Paolo
Stanca.
Non facciamo molto, ma ci si richiede che sia fatto bene. Training, ascolto, interazione.
Così concentrati, sembriamo giunchi sotto la pioggia.
Ci viene chiesto di camminare. Dopo pochi metri scopriremo che si tratta di un esercizio
difficile. Scopriremo, dentro quel nostro incedere rallentato e zoomato, che dietro ogni
passo, nell’alternarsi di contrazione e tensione, si ripresenta intatto il ciclo di vita e morte
che tiene in piedi l’esistenza; e un segreto perduto negli abissi dell’infanzia tornerà a
suggerirci quale fatica sia stata mettere un passo per la prima volta.
Acceleriamo. La forza motrice segna sette, otto, dieci. Corriamo come schegge impazzite.
Tocchiamo con mano – e con un gomito, una spalla, la punta di due nasi che si sfiorano o
si scontrano – l’antica arte dello stare al mondo. Siamo terrestri, acquatici, ariosi.
Prendiamo anche fuoco: ogni azione ha un’intenzione predominante, e noi tentiamo di
attraversarle tutte – di attraversarci.
Quando ci fermiamo, siamo carichi di tutto ciò che abbiamo fatto: essere immobili o in
movimento a questo punto non fa differenza, anzi, sfiorare quella soglia moltiplica la
potenza. Il nostro centro è tornato ad assestarsi al proprio posto, nel diaframma. È questo
il momento, ci dice Mario Perrotta, in cui erompe la parola. Rubo il taccuino di Paolo
Stanca: «La parola è “azione”. È l’espressione della nostra azione alla massima intensità
(che va da zero a dieci) che genera la parola, e non viceversa».
Il mio taccuino invece è vuoto. Ho bisogno di pensare, di assimilare l’esperienza di oggi
alle domande che lanciavo come strali bianchi quando chiedevo formalmente di poter
essere qui: «La vita va attraversata. Va messa in atto, agita: ma andrebbe agita sotto, e
non sopra, la superficie del mondo. Sollecitata dall’interno, smossa, scossa nei nervi,
“innervosita”».
«Sono rimasto molto colpito da Mario – mi scriverà più tardi Dario De Mitry – il teatro è
creatività, ma allo stesso tempo è anche serietà e disciplina! Ogni parte del nostro corpo
va studiata ed analizzata per conoscere anche i propri limiti. L’attore è un artigiano: deve
conoscere prima a fondo il suo mestiere per poter creare».
Durante la lezione Ylenia Caputo aguzza i suoi occhi grandi, affamati di senso. Cataste di
libri e il tempo fermo degli esami universitari improvvisamente hanno braccia e gambe che
si muovono su assi di legno. «“Il teatro è erotismo, è sesso.. ed il sesso si fa in due,
almeno in due. Non mi piace chi si masturba sul palco”. Le parole di Perrotta mi hanno
fatto pensare agli insegnamenti di Lacan.. il teatro, l’attore ed il pubblico come corpo
unico, sostanza godente. La Jouissance, il godimento del corpo che si contenta di se
stesso, che vive delle proprie pulsioni, quasi fosse un protendersi verso la morte, che
morte non è, ma la spinta propulsiva verso l’Essere. Morte e rinascita. Ma, questo corpo
unico preda della jouissance, che, nel nostro caso, è godimento dell’arte, è passato al
vaglio dal Simbolico, dalla Legge che dimora in noi e ci difende dall’ipertrorfia pulsionale,
chiedendo di obbedire ad un verbo, un’azione: l’ Esserci, nel mondo, in noi stessi e
nell’arte. Io sto. Sono presente a me stesso e a voi».
Ma poi arriva il momento di scendere dal palco. «Una pausa, una sigaretta e la severità
diventa sorriso, nel parlare della sua quotidianità come fosse uno di noi – commenta
Gabriella – “Ci vorrebbero almeno nove mesi di lavoro insieme per…”, e parte il sogno ad
occhi aperti di condividere training, sensazioni e lavoro attoriale». Paolo un po’ si
commuove, lui che il teatro ha iniziato ad amarlo grazie al nonno di Mario: «Da “Mario
Perrotta” a “Mario Perrotta”. Dalla Filodrammatica “Giosuè Borsi” dell’Azione Cattolica
della cattedrale di Lecce diretta dal nonno Mario, all’AMA col nipote Mario. La via maestra
che mi ha condotto al teatro ha un unico nome».
Se il teatro, come ci ha detto il nostro insegnante, è una relazione erotica, in questo
amplesso adesso siamo in molti: tutti noi, moltiplicati del doppio, per quanti all’inizio non-
eravamo, prima di esplorarci. Avevamo le braccia incrociate, i pugni chiusi: proteggevamo
gli organi vitali e i genitali. Ora non più. Non so quanta fiducia abbiamo, già, gli uni negli
altri. Di certo, ci sentiamo più potenti. Stiamo, “siamo”, totalmente, nel nostro qui e ora. Nel
nostro corpo.